Sempre più clostridi nel latte

 

La crescente industrializzazione degli allevamenti determina un trend negativo di uno dei parametri più importanti per la qualità del formaggio

versione di articolo apparso sul periodico Cheese Time

di Michele Corti – docente di Sistemi Zootecnici e pastorali montani presso l’Università degli Studi di Milano

Le stalle sempre più grandi, l’automazione e la meccanizzazione spinta di tutte le operazioni di (alimentazione, mungitura, pulizie) vanno d’accordo con la qualità del latte? Secondo l’ideologia agroindustriale “grande è pulito”, ma è così? In realtà il gigantismo zootecnico è alla base di problemi di contaminazione microbiologica del latte tali da pregiudicare gravemente la qualità del formaggio.

Alcuni tipi di microbi anticaseari sono “neutralizzati” dai disinfettanti e dai trattamenti termici del latte ma contro alcuni di essi (i clostridi), questi mezzi risultano inefficaci. La presenza dei clostridi provoca il “gonfiore tardivo”, un difetto del formaggio che consiste nella presenza di occhiature, fessurazioni, sfogliature, caverne e, talora, nella consistenza spugnosa della pasta. In sovrappiù possono riscontrarsi sapori ed odori sgradevoli. Questo grave problema (contro il quale non vi sono rimedi) si verifica dopo qualche settimana/mese di stagionatura e assilla vari tipi di formaggi a pasta dura o semi-dura.

Il guaio è che il fenomeno risulta in crescita. Nei campioni di latte controllati dall’Associazione Provinciale Allevatori (Apa) di Parma la percentuale di positività ai clostridi è salita dal 9,0% del 1991 al 23,54% del 2001 per superare il 30% nel 2003. In Lombardia i dati più recenti (2006) indicano un chiaro e generalizzato peggioramento della situazione.

I clostridi sono batteri che si sviluppano in condizioni di anaerobiosi (assenza di aria) e che formano una capsula protettiva i grado di consentirne la sopravvivenza nel terreno per anni. Sono resistenti alle temperature elevate (e quindi alla pastorizzazione) e ai comuni disinfettanti.

Alimentare le mucche con gli insilati (foraggi conservati in assenza di aria) rappresenta la principale causa della presenza di clostridi nel latte; mentre con l’alimentazione tradizionale (a base di erba o fieno) si trovano meno di 200 spore di clostridi per litro, con quella a base di insilati se ne possono trovare più di 2000.

Gli allevatori lo sanno, ma siccome gli insilati abbattono i costi della “razione”, il loro uso continua ad aumentare. La colpa, però, non è solo dell’insilato. L’unifeed è l’altro “imputato”. La tecnica dell’unifeed ovvero del “piatto unico”, mediante la quale si somministrano – in un’unica “passata” – tutti i componenti della dieta mescolati tra loro, è stata adottata per guadagnare tempo nella distribuzione degli alimenti. Si utilizzano enormi carri miscelatori superaccessoriati (da 20 metri cubi di capacità!) che “estraggono” l’insilato dai silo, “trinciano” i foraggi “lunghi”, li mescolano a mangimi ed altre materie prime (anche liquide) o acqua. Il foraggio così trattato è consumato senza lasciare “avanzi”. In più, somministrando insieme mangimi e foraggi, si possono far ingerire quantitativi più elevati di mangime rispetto a quanto possibile fornendo il mangime da solo. Quanti vantaggi!

Peccato che con questo sistema la polvere e la terra che contaminano i foraggi finiscano nella miscelata e che la presenza di acqua, amidi e zuccheri favorisca lo sviluppo dei clostridi.

Le mucche ingeriscono le spore e le “restituiscono” nelle feci; con il liquame, sparso copiosamente sui terreni. le spore tornano al terreno, i clostridi proliferano … e il ciclo ricomincia.

Veniamo al latte. La sua contaminazione avviene principalmente attraverso le feci e l’imbrattamento delle mammelle. I moderni sistemi di stabulazione “libera”, che non prevedono l’ uso di paglia, sono spesso caratterizzati da aree di “esercizio” molto sporche, dove le mucche si imbrattano di deiezioni; ammassate nelle sale di mungitura esse si sporcano ulteriormente. Stalle e impianti sottodimensionati rispetto all’aumentato numero di mucche presenti, la contrazione della manodopera e l’inevitabile aumento dei problemi gestionali contribuiscono a peggiorare la situazione in quanto non si puliscono abbastanza le aree di riposo, le attrezzature a contatto con gli animali, le mangiatoie (dove restano i residui di alimento). Quanto alla mammella e ai capezzoli non c’è sempre il tempo per pulirli adeguatamente. L’uso “industriale” di disinfettanti non risolve il problema, semmai lo aggrava perché riduce la flora microbica “buona”, in grado di contrastare i clostridi. Loro, invece, resistono.

In caseificio non ci sono molti rimedi. A parte l’uso del Lisozima (antibatterico “naturale”) i rimedi consistono nell’eliminazione delle cellule batteriche mediante battofugazione (processo che utilizza la forza centrifuga) o l’ultrafiltrazione. L’affioramento naturale del grasso “libera” il latte da molte spore, ma non da tutte. Vi è poi la possibilità di utilizzare innesti “selezionati” con batteri lattici in grado di moltiplicarsi nel latte e “competere” con i clostridi. Infine si può giocare sulle temperature elevate di cottura della cagliata e su tecniche che consentono di ottenere cagliate compatte, uniformemente disidratate e in grado di assorbire bene il sale.

Si tratta di soluzioni utilizzabili solo nel contesto di determinate tecnologie casearie o che implicano una profonda manipolazione del latte. Il problema clostridi – legato com’è ad un allevamento sempre più industriale – nonostante questi accorgimenti diventerà sempre più grave.

Michele Corti

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